La Fortezza Bastiani siamo noi, il perseverare nell'essere ciò che non 
siamo, confidando illusoriamente che in un futuro indefinito saremo ciò 
che oggi abbiamo paura di essere. I tartari invece sono i fantasmi, chè 
di fantasmi si tratta, che albergano nell'animo nostro, quei draghi che 
da bambini non siamo riusciti ad uccidere e forse non uccideremo mai. Il
 romanzo si svolge in una dimensione quasi onirica, un limbo 
extraspaziale ed extratemporale dove tutto è rarefatto ma le regole non 
possono essere infrante, pena la morte. L'unica speranza è l'attesa, per
 qualcosa che in vero non arriverà mai, anche perché non esiste più, se 
mai è esistito.
C'è Kafka con il suo processo senza una reale 
colpa, c'è Becket con un Godot mai nominato eppure sempre lì da venire, 
c'è Freud, con i meccanismi complessi della mente umana. E ci siamo noi,
 fragili e forti a un tempo, ma soprattutto soli contro i Tartari 
inesistenti della nostra esistenza. Un'esistenza che scorre via fra 
rinvii sine die, che si tramutano in stanchezza con l'avanzare dell'età,
 e tenuta a volte in piedi da pallidi lumicini che ci illudiamo, come fa
 il protagonista, siano di di un avamposto tartaro contro cui finalmente
 sfoderare la spada, l'occasione di riscatto che si aspetta tutta la 
vita. Un riscatto che pure arriva, ma quando è ormai troppo tardi, 
facendo per assurdo della morte l'unico riscatto possibile di una vita 
mal vissuta.
Il film che ne è stato ricavato, con un cast di 
primissimo ordine (Gassman, Perrin, Gemma, Noiret, Trintignat) non rende
 ragione al libro, quasi lo tramuta da introspezione sull'animo umano a 
specchio di certe assurdità della vita militare. Inoltre, dando alle 
vicende una collocazione spazio-temporale per quanto vaga e a volte 
appena allusa, toglie quell'aura eterea che è caratteristica 
fondamentale del romanzo.
E' triste? E' angosciante? Di sicuro 
non è una lettura spensierata, bisogna aver voglia di guardarsi dentro 
mentre si scorrono le pagine, come si fa leggendo certi romanzi che 
quando li chiudiamo ci lasciano dei segni come avessimo preso pugni 
sullo stomaco. Del resto, a chi lo accusò di copiare Kafka, Buzzati 
rispose: non sono io, è la vita che lo fa.

 





