Questo blog nasce dalla passione per i libri e dalla volontà di raccogliere insieme un po' di commenti che ho lasciato in giro qua e là su Facebook. Non sono un critico letterario nè ambisco esserlo, sono soltanto un lettore che ama riflettere su ciò che legge e condividerlo con gli altri per confrontarsi. Non ci sono tutti i libri che leggo, ma solo quelli di cui ho avuto voglia di parlare, anche senza ragioni specifiche, magari soltanto perchè in un determinato momento avevo voglia di farlo.

sabato 3 maggio 2014

Jezabel - Irène Némirovsky


Profumi e balocchi in versione letteraria, la celebre canzone strappalacrime del 1928, ovvero lo stereotipo della donna ricca e senza cuore, presa solo da sè stessa e dal suo desiderio, ossessione in questo caso, di apparire bella, di piacere. La paura di invecchiare che assurge al patologico, il rifiuto dell'età come rifiuto di sè, porta Gladys, la protagonista del romanzo della Nemirovsky, a passare sopra a tutto, affetti in primis, come un buldozer, per giungere dove Dorian Gray è giunto pagando il prezzo che tutti sappiamo.

Il fascino come arma e l'omicidio come catarsi o come fuga dalla realtà, dal tempo che scorre, accomunano Gladys e Dorian, ma direi che le analogie si fermano qui, il valore letterario delle due opere è assolutamente incomparabile, Oscar Wilde ha tutt'altro spessore. Jezabel intrattiene ma nulla di più, cerca ripetutamente il colpaccio, ma è un colpaccio già ammiccato nelle prime pagine, non riesce a sorprendere come vorrebbe, almeno non un lettore del XXI secolo, non dimentichiamo che il libro è del 1936, ha cioè 80 anni.

Lo stile è essenziale, dialoghi, soprattutto dialoghi, poche le descrizioni e piuttosto sommarie ed un linguaggio non molto ricercato; ha comunque il pregio di una discreta scorrevolezza, anche se non sempre riesce a mantenere alta l'attenzione, soprattutto nei punti dove si intuisce anticipatamente il contenuto della pagina successiva.

Se sintetizzando al massimo Guerra e pace, Woody Allen diceva che parla della Russia, di Jezabel si può dire che anche i ricchi piangono, ma i poveri forse di più.

martedì 4 febbraio 2014

La pelle - Curzio Malaparte


Il titolo quasi allude sensualità, ma la pelle di cui si parla è più prosaicamente, o semplicemente, quella che chi è disperato cerca di salvare, cioè la propria o al massimo quella dei propri cari. Napoli, 1943, gli alleati, americani e franco-marocchini, risalgono da Salerno dove sono sbarcati e occupano la città. La liberano, dice qualcuno, ma Malaparte non sembra essere d'accordo, non solo perché sono, di fatto, un esercito straniero (che 70 anni dopo ha ancora lì il suo quartier generale) ma perché sono un'entità estranea che mai comprenderà né sarà compresa, potrà solo essere fagocitata da quell'incredibile universo che è la città partenopea.

La guerra ha portato la popolazione allo stremo, la miseria fisica ha dato spazio a quella morale, la fame ha fatto a pezzi la dignità delle persone, guadagnare un giorno di vita in più è il solo scopo di chi ha l'indomani come unico orizzonte possibile, sempre che un proiettile, una bomba o persino il Vesuvio non si mettano di traverso. La mancanza di cibo ha rotto gli schemi, gli equilibri secolari che regolano i rapporti sociali, ma non ha intaccato il carattere dei napoletani, quel distacco dalle cose terrene che ad un superficiale sguardo può apparire semplice fatalismo.
L'abisso si manifesta attraverso donne che per un pacchetto di sigarette vendono se stesse o addirittura i bambini, magari prima che questi possano vendere loro; un pacchetto di sigarette vale 3 chili di pane, la sopravvivenza di un'intera famiglia, della specie. Malaparte inorridisce, "I bambini a Napoli sono sempre stati sacri", ma non giudica e neppure noi possiamo farlo, la fame bisognerebbe provarla per capirla.

E pure Napoli bisogna provarla per capirla, per quanto chi non è napoletano possa riuscire a fare. Superando la naturale repulsione che sporcizia ed incuria suscitano dentro di noi, grattando un poco quella patina grigia ed appiccicosa, a volte melensa, che ricopre palazzi e persone, andando oltre ritualità che paiono inutili superstizioni, si scopre un mondo meraviglioso popolato da un'umanità incredibilmente viva e vivace, un microcosmo appena intaccato dalla modernità o meglio, che nella modernità ha saputo conservare la propria identità e soprattutto la propria anima. Sì, perché Napoli, a differenza ad esempio di Roma, ha ancora un anima ed è un anima bellissima. Ha uno dei pochissimi centri storici in Italia, insieme a Palermo, Bari e Genova, dove le case e le botteghe antiche non sono state trasformate in abitazioni di lusso e concept store, dove gli abitanti non sono estranei catapultati da luoghi remoti, dove ceti sociali diversissimi fra loro coesistono seppure con le inevitabili differenze. Napoli è Napoli, non altro, è unica, ti carezza e ti bastona a seconda dei suoi umori, ma non scivola mai via indifferente, sia che lo sguardo da Posillipo spazi verso il golfo, sia che resti abbacinato dalle brutture industriali di Bagnoli.

La pelle è un libro bellissimo, che cattura fin dalle prime pagine, a volte rifila un pugno allo stomaco, altre affascina per l'eloquio o per l'analisi profonda e attenta dell'autore, lucida al punto di sembrare cinismo. Racconta i fatti come si sono svolti, nudi e crudi, senza volerne trarre spunti per esaltare vincitori o vinti, ma esplicitando, o lasciando alla sensibilità del lettore, riflessioni sul senso atroce della guerra e sui suoi drammatici effetti sulla vita quotidiana delle persone.
La Quinta Armata che avanza non è quella che la filmografia hollywoodiana ha mostrato nella sua innegabile eroicità, ma è un esercito di uomini che combattono, vincono ma tremano e spesso sbagliano o anche si comportano in modo ridicolo. Fra loro, i tanti a cui dobbiamo la nostra libertà, anche se, ci avverte Malaparte, è una vergogna vincere la guerra, intendendo con questo che la grandezza di un popolo si misura dal modo in cui tratta i vinti.

Da segnalare che quando è stato pubblicato è stato messo all'indice dalla chiesa cattolica, probabilmente per la scena degli ebrei crocifissi, simbolo evidente della contraddizione dell'Europa cristiana che genera la più atroce guerra della storia umana e poi si commuove provando pietà per se stessa. Così come i campi di concentramento nazisti diventano il luogo dove dubitare dell'esistenza di Dio o almeno della sua onnipresenza, una guerra fra europei pone inevitabilmente domande sul senso della fratellanza cristiana. Ciascuno, all'ultima pagina avrà le sue risposte, di sicuro è un libro imperdibile, di sicuro un libro che segna.


giovedì 23 gennaio 2014

Il male oscuro - Giuseppe Berto


Il fantasma del padre, prima reale poi introiettato, aleggia sul protagonista e sul lettore durante l'intero romanzo. Romanzo fino a un certo punto, giacché in prima pagina l'autore si premunisce di comunicarci la natura autobiografica dell'opera citando la nota affermazione di Flaubert, Madame Bovary sono io. Ma così come Emma Bovary non è solo Flaubert ma un po' tutti noi, ritrovarsi nelle nevrosi e nelle compulsioni del protagonista, magari con le proporzioni del caso, è un fatto che si ripete spesso durante questa lettura. Nevrosi, si badi bene, non psicosi, come Berto stesso tiene a distinguere, quell'insieme di sintomi che divengono malattia essi stessi in assenza di una patologia altrimenti definibile. Il male di vivere, la sofferenza dell'uomo moderno, compresso tra la volontà e la possibilità, che a volte esplode nell'urlo di Munch, altre si avviluppa su se stesso in un male oscuro che diventa l'unica risposta, l'unico rifugio, l'unica strada per difendersi da un mondo che percepisce ostile.

Tutto il libro, che si sviluppa come un unico flusso ininterrotto di pensiero, trasuda depressione, condita qua e là da sprazzi di ironia o autoironia, qualità che spesso non manca ai depressi, alternando cinismo ed autocommiserazione. Non so se sia proprio di Berto la definizione "male oscuro", lo credo ma non ne ho la certezza, di sicuro è ben azzeccata; oscuro non in quanto clinicamente sconosciuto, la psicanalisi ha cent'anni, ma perché oscura è la via che conduce alla diagnosi e quindi alla terapia adatta. Brancola infatti nel buio il protagonista, peregrinando fra specialisti di varie branche della medicina alla ricerca dell'origine fisiologica di un dolore che in realtà parte dalla sua testa o, più probabilmente dalla sua anima. Nella lingua spagnola c'è un termine bellissimo che l'italiano non ha, "anímico", che corrisponde a tutto quello che riguarda la persona interiormente. Ecco, Il male oscuro è un romanzo anímico, che ci mostra in modo incredibilmente realistico quello che avviene nella mente e nel corpo, di un depresso, l'eziogenesi dei suoi sbalzi d'umore, il suo pessimismo, le sue improvvise euforie, le sue strategie di sopravvivenza, spesso grottesche agli occhi delle persone sane. E lo fa, incredibilmente, senza intristirci, senza contagiarci.

Giuseppe Berto ha scritto questo libro in soli due mesi nel 1964, dopo quindi La coscienza di Zeno di Italo Svevo, a cui però per fortuna non attinge stilisticamente, e prima di Le parole per dirlo, di Marie Cardinal, al cui confronto appare abissalmente più profondo ed intenso e soprattutto meno evangelico a proposito della psicoterapia. E' un romanzo scritto innanzitutto per sè, una catarsi interiore perfettamente riuscita, uno di quei punti che nella vita si sente ogni tanto di dover mettere, che però risulta, forse incidentalmente, anche profondamente didattico sulle tematiche freudiane.

E' assolutamente un capolavoro, scorre senza stancare malgrado lo stile impetuoso fatto di periodi molto lunghi dove però, a differenza di Saramago, non manca la punteggiatura. E' ricco di fatti, pensieri, riflessioni profonde, avvenimenti storici reali (le vicende si svolgono nell'arco di alcuni decenni), descrizioni di vita familiare e quotidiana che quasi lo rendono fruibile anche come romanzo di costume. E' il racconto di un uomo e del suo male che diventa però il racconto di tanti uomini della nostra epoca che faticano a trovare se stessi e la propria dimensione.

venerdì 3 gennaio 2014

L'Agnese va a morire - Renata Viganò


Katz kaputt, il gatto è morto. Tutto quello che sapevo, o ricordavo, dell'Agnese va a morire è la frase breve e lapidaria che un soldato tedesco pronuncia ridendo, dopo aver crudelmente ed inutilmente sparato al gatto di Agnese, recidendo quell'ultimo legame che le rimaneva con la vita normale, quella vissuta fino a prima della guerra. Katz kaputt, ed una donna anziana, anziana almeno secondo i canoni di allora, si ritrova a lavorare attivamente per la resistenza (pardòn, Resistenza, tanto per chiarire che non parliamo di resistenze elettriche o psicologiche), a partecipare a quelle che fino ad allora erano state per lei "cose da uomini". Katz kaputt sono le sole parole che erano rimaste impresse nella mia mente, un frammento trasmesso dal libro di antologia delle medie o del ginnasio, epoca in cui qualunque lettura, anche la più piacevole, diventa una noia mortale per il solo fatto di essere imposta dalla scuola.

Eppure è un libro bellissimo, un racconto realistico, verace, della guerra partigiana, successi e sconfitte di uomini semplici ed eroici, difficoltà ma anche piccole gioie quotidiane malgrado la morte sempre incombente. Un romanzo da leggere oggi, quando il tempo sfuma i contorni dei fatti e molti, troppi, tentano di approfittarne per rimestare la Storia in un unico calderone dove confondere torti e ragioni, mostrando i morti per ciò che sono, tristi corpi inanimati, e non anche ciò che sono stati, ovvero vittime o carnefici. Troppo facile, o troppo disonesto, al caldo delle nostre case, mettere tutti sullo stesso piano. Ci sono stati sicuramente giovani e giovanissimi che ubriacati dalla propaganda del regime fascista hanno fatto in buona fede scelte scellerate, ma i veri traditori dopo l'8 settembre sono stati coloro che impugnando la bandiera italiana da loro stessi insanguinata si sono messi al servizio del criminale nazista, non di certo chi ha scelto di combattere un esercito invasore ed ha pagato la sua scelta con la vita. Ai primi va l'umana pietà che si deve ai morti, ai secondi il tributo che si deve agli eroi e l'eterna gratitudine per la libertà di cui godiamo oggi. Katz kaputt, così per gioco, ma un gioco non era e tanti l'hanno pagato a caro prezzo.

Ho finito di leggere questo libro girovagando per le colline toscane, passando anche per Volterra, la città di Bube, un'altro protagonista letterario della resistenza. Qua e là qualche targa firmata CLN, Comitato di Liberazione Nazionale, ricorda un ragazzo morto poco più che ventenne nell'inverno del '44, fucilato insieme a dieci suoi compagni o un'intero paese di inermi contadini. Accanto alla targa, l'insegna di un ristorante, libero grazie a quei ragazzi là. Dentro, casualmente, mi ritrovo seduto vicino ad un tavolo occupato da quattro tedeschi. Katz kaputt mi risuona ancora nella testa, quasi vorrei alzarmi e chiedergli perché hanno sparato al gatto, perché un popolo intero, decine di milioni di persone, ha fatto della crudeltà e dell'odio una religione, una scelta di vita, perché ancora oggi c'è chi subisce il fascino di quelle idee di morte e sopraffazione, ma anche idee di vigliaccheria, chè solo un vigliacco può affrontare un gatto con il mitra. Katz kaputt, il gatto è morto, Agnese pure, e tanti uomini e donne anonimi con loro. A noi vivi, il dovere del ricordo, a noi lettori il piacere della prosa lucida di Renatà Viganò, donna, partigiana, scrittrice. Katz kaputt, alla fine hanno perso, i gatti sono ancora vivi.