Il fantasma del padre, prima reale poi introiettato, aleggia sul protagonista
e sul lettore durante l'intero romanzo. Romanzo fino a un certo punto,
giacché in prima pagina l'autore si premunisce di comunicarci la natura autobiografica dell'opera citando la nota affermazione di Flaubert, Madame Bovary sono io. Ma così come Emma Bovary non è solo Flaubert ma un po' tutti noi, ritrovarsi nelle nevrosi e nelle compulsioni del protagonista,
magari con le proporzioni del caso, è un fatto che si ripete spesso
durante questa lettura. Nevrosi, si badi bene, non psicosi, come Berto
stesso tiene a distinguere, quell'insieme di sintomi che divengono
malattia essi stessi in assenza di una patologia altrimenti definibile.
Il male di vivere, la sofferenza dell'uomo moderno, compresso tra la
volontà e la possibilità, che a volte esplode nell'urlo di Munch,
altre si avviluppa su se stesso in un male oscuro che diventa l'unica
risposta, l'unico rifugio, l'unica strada per difendersi da un mondo che
percepisce ostile.
Tutto il libro, che si sviluppa come un unico flusso ininterrotto di pensiero, trasuda depressione, condita qua e là da sprazzi di ironia o autoironia, qualità che spesso non manca ai depressi, alternando cinismo ed autocommiserazione. Non so se sia proprio di Berto la definizione "male oscuro", lo credo ma non ne ho la certezza, di sicuro è ben azzeccata; oscuro non in quanto clinicamente sconosciuto, la psicanalisi ha cent'anni, ma perché oscura è la via che conduce alla diagnosi e quindi alla terapia adatta. Brancola infatti nel buio il protagonista, peregrinando
fra specialisti di varie branche della medicina alla ricerca
dell'origine fisiologica di un dolore che in realtà parte dalla sua
testa o, più probabilmente dalla sua anima. Nella lingua spagnola c'è un termine bellissimo che l'italiano non ha, "anímico", che corrisponde a tutto quello che riguarda la persona interiormente. Ecco, Il male oscuro è un romanzo anímico, che ci mostra in modo incredibilmente
realistico quello che avviene nella mente e nel corpo, di un depresso,
l'eziogenesi dei suoi sbalzi d'umore, il suo pessimismo, le sue
improvvise euforie, le sue strategie di sopravvivenza, spesso grottesche agli occhi delle persone sane. E lo fa, incredibilmente, senza intristirci, senza contagiarci.
Giuseppe Berto ha scritto questo libro in soli due mesi nel 1964, dopo quindi La coscienza di Zeno di Italo Svevo, a cui però per fortuna non attinge stilisticamente, e prima di Le parole per dirlo, di Marie Cardinal, al cui confronto appare abissalmente più profondo ed intenso e soprattutto meno evangelico a proposito della psicoterapia. E' un romanzo scritto innanzitutto per sè, una catarsi interiore perfettamente riuscita, uno di quei punti che nella vita si sente ogni tanto di dover mettere, che però risulta, forse incidentalmente, anche profondamente didattico sulle tematiche freudiane.
E' assolutamente un capolavoro, scorre senza stancare malgrado lo stile impetuoso fatto di periodi molto lunghi dove però, a differenza di Saramago, non manca la punteggiatura.
E' ricco di fatti, pensieri, riflessioni profonde, avvenimenti storici
reali (le vicende si svolgono nell'arco di alcuni decenni), descrizioni
di vita familiare e quotidiana che quasi lo rendono fruibile anche come
romanzo di costume. E' il racconto di un uomo e del suo male che diventa
però il racconto di tanti uomini della nostra epoca che faticano a
trovare se stessi e la propria dimensione.
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