Questo blog nasce dalla passione per i libri e dalla volontà di raccogliere insieme un po' di commenti che ho lasciato in giro qua e là su Facebook. Non sono un critico letterario nè ambisco esserlo, sono soltanto un lettore che ama riflettere su ciò che legge e condividerlo con gli altri per confrontarsi. Non ci sono tutti i libri che leggo, ma solo quelli di cui ho avuto voglia di parlare, anche senza ragioni specifiche, magari soltanto perchè in un determinato momento avevo voglia di farlo.

giovedì 23 gennaio 2014

Il male oscuro - Giuseppe Berto


Il fantasma del padre, prima reale poi introiettato, aleggia sul protagonista e sul lettore durante l'intero romanzo. Romanzo fino a un certo punto, giacché in prima pagina l'autore si premunisce di comunicarci la natura autobiografica dell'opera citando la nota affermazione di Flaubert, Madame Bovary sono io. Ma così come Emma Bovary non è solo Flaubert ma un po' tutti noi, ritrovarsi nelle nevrosi e nelle compulsioni del protagonista, magari con le proporzioni del caso, è un fatto che si ripete spesso durante questa lettura. Nevrosi, si badi bene, non psicosi, come Berto stesso tiene a distinguere, quell'insieme di sintomi che divengono malattia essi stessi in assenza di una patologia altrimenti definibile. Il male di vivere, la sofferenza dell'uomo moderno, compresso tra la volontà e la possibilità, che a volte esplode nell'urlo di Munch, altre si avviluppa su se stesso in un male oscuro che diventa l'unica risposta, l'unico rifugio, l'unica strada per difendersi da un mondo che percepisce ostile.

Tutto il libro, che si sviluppa come un unico flusso ininterrotto di pensiero, trasuda depressione, condita qua e là da sprazzi di ironia o autoironia, qualità che spesso non manca ai depressi, alternando cinismo ed autocommiserazione. Non so se sia proprio di Berto la definizione "male oscuro", lo credo ma non ne ho la certezza, di sicuro è ben azzeccata; oscuro non in quanto clinicamente sconosciuto, la psicanalisi ha cent'anni, ma perché oscura è la via che conduce alla diagnosi e quindi alla terapia adatta. Brancola infatti nel buio il protagonista, peregrinando fra specialisti di varie branche della medicina alla ricerca dell'origine fisiologica di un dolore che in realtà parte dalla sua testa o, più probabilmente dalla sua anima. Nella lingua spagnola c'è un termine bellissimo che l'italiano non ha, "anímico", che corrisponde a tutto quello che riguarda la persona interiormente. Ecco, Il male oscuro è un romanzo anímico, che ci mostra in modo incredibilmente realistico quello che avviene nella mente e nel corpo, di un depresso, l'eziogenesi dei suoi sbalzi d'umore, il suo pessimismo, le sue improvvise euforie, le sue strategie di sopravvivenza, spesso grottesche agli occhi delle persone sane. E lo fa, incredibilmente, senza intristirci, senza contagiarci.

Giuseppe Berto ha scritto questo libro in soli due mesi nel 1964, dopo quindi La coscienza di Zeno di Italo Svevo, a cui però per fortuna non attinge stilisticamente, e prima di Le parole per dirlo, di Marie Cardinal, al cui confronto appare abissalmente più profondo ed intenso e soprattutto meno evangelico a proposito della psicoterapia. E' un romanzo scritto innanzitutto per sè, una catarsi interiore perfettamente riuscita, uno di quei punti che nella vita si sente ogni tanto di dover mettere, che però risulta, forse incidentalmente, anche profondamente didattico sulle tematiche freudiane.

E' assolutamente un capolavoro, scorre senza stancare malgrado lo stile impetuoso fatto di periodi molto lunghi dove però, a differenza di Saramago, non manca la punteggiatura. E' ricco di fatti, pensieri, riflessioni profonde, avvenimenti storici reali (le vicende si svolgono nell'arco di alcuni decenni), descrizioni di vita familiare e quotidiana che quasi lo rendono fruibile anche come romanzo di costume. E' il racconto di un uomo e del suo male che diventa però il racconto di tanti uomini della nostra epoca che faticano a trovare se stessi e la propria dimensione.

venerdì 3 gennaio 2014

L'Agnese va a morire - Renata Viganò


Katz kaputt, il gatto è morto. Tutto quello che sapevo, o ricordavo, dell'Agnese va a morire è la frase breve e lapidaria che un soldato tedesco pronuncia ridendo, dopo aver crudelmente ed inutilmente sparato al gatto di Agnese, recidendo quell'ultimo legame che le rimaneva con la vita normale, quella vissuta fino a prima della guerra. Katz kaputt, ed una donna anziana, anziana almeno secondo i canoni di allora, si ritrova a lavorare attivamente per la resistenza (pardòn, Resistenza, tanto per chiarire che non parliamo di resistenze elettriche o psicologiche), a partecipare a quelle che fino ad allora erano state per lei "cose da uomini". Katz kaputt sono le sole parole che erano rimaste impresse nella mia mente, un frammento trasmesso dal libro di antologia delle medie o del ginnasio, epoca in cui qualunque lettura, anche la più piacevole, diventa una noia mortale per il solo fatto di essere imposta dalla scuola.

Eppure è un libro bellissimo, un racconto realistico, verace, della guerra partigiana, successi e sconfitte di uomini semplici ed eroici, difficoltà ma anche piccole gioie quotidiane malgrado la morte sempre incombente. Un romanzo da leggere oggi, quando il tempo sfuma i contorni dei fatti e molti, troppi, tentano di approfittarne per rimestare la Storia in un unico calderone dove confondere torti e ragioni, mostrando i morti per ciò che sono, tristi corpi inanimati, e non anche ciò che sono stati, ovvero vittime o carnefici. Troppo facile, o troppo disonesto, al caldo delle nostre case, mettere tutti sullo stesso piano. Ci sono stati sicuramente giovani e giovanissimi che ubriacati dalla propaganda del regime fascista hanno fatto in buona fede scelte scellerate, ma i veri traditori dopo l'8 settembre sono stati coloro che impugnando la bandiera italiana da loro stessi insanguinata si sono messi al servizio del criminale nazista, non di certo chi ha scelto di combattere un esercito invasore ed ha pagato la sua scelta con la vita. Ai primi va l'umana pietà che si deve ai morti, ai secondi il tributo che si deve agli eroi e l'eterna gratitudine per la libertà di cui godiamo oggi. Katz kaputt, così per gioco, ma un gioco non era e tanti l'hanno pagato a caro prezzo.

Ho finito di leggere questo libro girovagando per le colline toscane, passando anche per Volterra, la città di Bube, un'altro protagonista letterario della resistenza. Qua e là qualche targa firmata CLN, Comitato di Liberazione Nazionale, ricorda un ragazzo morto poco più che ventenne nell'inverno del '44, fucilato insieme a dieci suoi compagni o un'intero paese di inermi contadini. Accanto alla targa, l'insegna di un ristorante, libero grazie a quei ragazzi là. Dentro, casualmente, mi ritrovo seduto vicino ad un tavolo occupato da quattro tedeschi. Katz kaputt mi risuona ancora nella testa, quasi vorrei alzarmi e chiedergli perché hanno sparato al gatto, perché un popolo intero, decine di milioni di persone, ha fatto della crudeltà e dell'odio una religione, una scelta di vita, perché ancora oggi c'è chi subisce il fascino di quelle idee di morte e sopraffazione, ma anche idee di vigliaccheria, chè solo un vigliacco può affrontare un gatto con il mitra. Katz kaputt, il gatto è morto, Agnese pure, e tanti uomini e donne anonimi con loro. A noi vivi, il dovere del ricordo, a noi lettori il piacere della prosa lucida di Renatà Viganò, donna, partigiana, scrittrice. Katz kaputt, alla fine hanno perso, i gatti sono ancora vivi.